giovedì 4 giugno 2015

Gabriele d'Annunzio - La pioggia nel pineto 2

Autografo, Gabriele d'Annunzio, 1902.



Taci. Su le soglie
del bosco non odo
parole che dici
umane; ma odo
parole più nuove
che parlano gocciole e foglie
lontane.
Ascolta. Piove
dalle nuvole sparse.
Piove su le tamerici
salmastre ed arse,
piove su i pini
scagliosi ed irti,
piove su i mirti
divini,
su le ginestre fulgenti
di fiori accolti,
su i ginepri folti
di coccole aulenti,
piove su i nostri volti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggieri,
su i freschi pensieri
che l'anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
t'illuse, che oggi m'illude,
o Ermione.

La poesia è divisibile in quattro strofe. In questa prima strofa il poeta si rivolge direttamente alla sua donna, che chiama Ermione, e le chiede di tacere e ascoltare la natura, il suono delle foglie e della pioggia che cade su di loro e su ciò che li circonda. Ripete spesso la parola ‘piove’ a inizio verso, ovvero utilizza un’anafora. Dice anche che piove sulle ginestre fulgenti, e ciò può essere collegato a ‘La Ginestra’ di Giacomo Leopardi, in cui il poeta fa riferimento ad una ginestra.  In questa poesia ci sono moltissimi enjambement, infatti i versi sono molto corti. D’Annunzio vuole dare alla poesia un ritmo quasi musicale, cercando di far sentire attraverso le parole al lettore lo scrosciare della pioggia. I verbi sono tutti al presente (taci, odo, dici, parlano, ascolta, piove, illude) ad eccezione di uno (illuse). Questo può voler significare che il poeta vuole dimenticare il passato e vivere il presente. Si può visualizzare anche una sinestesia, ovvero ‘su i freschi pensieri’. Alla fine della strofa troviamo un chiasmo (‘che ieri t’illuse, che oggi m’illude, o ermione.’) perciò la poesia è collegabile all’Orlando Furioso di Ariosto, dove il chiasmo è ‘le donne, i cavalieri, l’arme, gli amori.’

Odi? La pioggia cade
su la solitaria
verdura
con un crepitío che dura
e varia nell'aria
secondo le fronde
più rade, men rade.
Ascolta. Risponde
al pianto il canto
delle cicale
che il pianto australe
non impaura,
nè il ciel cinerino.
E il pino
ha un suono, e il mirto
altro suono, e il ginepro
altro ancóra, stromenti
diversi
sotto innumerevoli dita.
E immersi
noi siam nello spirto
silvestre,
d'arborea vita viventi;
e il tuo volto ebro
è molle di pioggia
come una foglia,
e le tue chiome
auliscono come
le chiare ginestre,
o creatura terrestre
che hai nome
Ermione.

In questa strofa, il poeta riprende il suono della pioggia che bagna la sua donna, sé stesso e la vegetazione circostante, a cui si aggiungono però altri suoni, che completano il quadro musicale, come il canto delle cicale, come se fossero strumenti suonati da migliaia di dita. Nel terzo verso, D’Annunzio chiama la vegetazione ‘verdura’. La strofa si apre e si completa con un’apostrofe, perché il poeta si rivolge direttamente alla sua amata, ovvero Eleonora Duse. Nel settimo verso invece è presente un climax discendente (più rade, men rade) nei versi 14-15-16-17 si può notare un’accumulazione (e il pino ha un suono, e il mirto altro suono, e il ginepro altro ancora).  Gli ultimi 10 versi  possono collegarsi con il Cantico dei Cantici, ovvero un testo contenuto nella Bibbia ebraica e cristiana. I verbi sono 13 e sono tutti al presente indicativo (odi, cade, dura, varia, ascolta, risponde, impaura, ha, immersi, siam, è, auliscono, hai). Nei versi 23-24-25-26  troviamo due similitudini (è molle di pioggia come una foglia, e le tue chiome auliscono come le chiare ginestre). 

 Ascolta, ascolta. L'accordo
delle aeree cicale
a poco a poco
più sordo
si fa sotto il pianto
che cresce;
ma un canto vi si mesce
più roco
che di laggiù sale,
dall'umida ombra remota.
Più sordo e più fioco
s'allenta, si spegne.
Sola una nota
ancor trema, si spegne,
risorge, trema, si spegne.
Non s'ode voce del mare.
Or s'ode su tutta la fronda
crosciare
l'argentea pioggia
che monda,
il croscio che varia
secondo la fronda
più folta, men folta.
Ascolta.
La figlia dell'aria
è muta; ma la figlia
del limo lontana,
la rana,
canta nell'ombra più fonda,
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su le tue ciglia,
Ermione.

In questa strofa, D’Annunzio aggiunge altri suoni, riprendendo sempre il tema musicale anche paragonando versi, come quello delle cicale o delle rane, a note che, lentamente, si spengono. Il poeta si riferisce ancora direttamente all’amata che lo sta accompagnando in questo ‘viaggio’ attraverso le armonie della natura, dandole ancora il nome della mitologica Ermione. Egli usa solo verbi al presente (ascolta, fa, cresce, mesce, sale, allenta, spegne, trema, spegne, risorge, ode, varia, è, canta, sa, piove). La strofa si apre con una ripetizione (ascolta, ascolta) che il poeta utilizza per richiamare la donna a concentrarsi di nuovo sulla bellezza che li circonda. Vengono utilizzati molti climax (s’allenta si spegne, trema si spegne, risorge trema si spegne, più folta men folta). Sono presenti due sinestesie (umida ombra remota,  argentea pioggia.) un’altra ripetizione si ha nel verso 30 (chi sa dove, chi sa dove!). La metrica è libera e non segue uno schema ben preciso, così come in tutte le altre strofe. La strofa si chiude con ‘Ermione’(una figura della mitologia greca, figlia di Menelao e di Elena).

Piove su le tue ciglia nere
sì che par tu pianga
ma di piacere; non bianca
ma quasi fatta virente,
par da scorza tu esca.
E tutta la vita è in noi fresca
aulente,
il cuor nel petto è come pesca
intatta,
tra le pàlpebre gli occhi
son come polle tra l'erbe,
i denti negli alvèoli
con come mandorle acerbe.
E andiam di fratta in fratta,
or congiunti or disciolti
(e il verde vigor rude
ci allaccia i mallèoli
c'intrica i ginocchi)
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su i nostri vólti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggieri,
su i freschi pensieri
che l'anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
m'illuse, che oggi t'illude,
o Ermione.

In quest’ultima strofa il poeta conclude la poesia con una trasformazione sua e della sua donna che, come nel mito ripreso dal gruppo marmoreo del Bernini Apollo e Dafne, diventano vegetazione. Questo può voler significare che, stando nella tranquillità del pineto, d’Annunzio ha capito che preferirebbe vivere come una pianta e non avere problemi. Inoltre, utilizzando delle similitudini, egli si ricollega al Cantico dei Cantici (il cuor nel petto è come pesca intatta, tra le palpebre gli occhi son come polle tra le erbe, i denti negli alveoli son come mandorle acerbe.) I verbi rimangono tutti al presente (piove, par, è, son, andiam, allaccia, intrica, sa, piove, schiude, illude) tranne uno (illuse). Il poeta utilizza un’accumulazione per spiegare che la pioggia continua a scrosciare su di loro e su ciò che li circonda (e piove sui nostri volti silvani, piove su le nostre mani ignude, su i nostri vestimenti leggieri, su i freschi pensieri che l’anima schiude novella). La poesia si chiude riprendendo il chiasmo presente anche nella prima strofa, in cui D’Annunzio paragona la loro storia d’amore con una favola bella che li illuse in passato e continua a illuderli di piacere (su la favola bella che ieri t’illuse, che oggi m’illude, o Ermione).


Questa poesia mi è piaciuta moltissimo per la sua musicalità. È molto semplice da leggere e da capire perché ci sono molte ripetizioni e sembra che scorra proprio come la pioggia descritta dall’autore. Inoltre mi è piaciuto anche l’argomento, ovvero la tranquillità che la natura, sotto tutti i suoi aspetti può trasmettere. Io mi ritrovo in ciò che scrive D’Annunzio, a volte vorrei essere una pianta o qualche animale per vivere nella completa tranquillità. Amo il suono della pioggia, e questa poesia me l’ha fatto ascoltare attraverso le parole. Penso che il Decadentismo sia il periodo più simile a quello che stiamo vivendo noi ora, e lo trovo molto affascinante. 

Sofia Carecci

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